martedì 9 giugno 2015

Dalle unghie al fiato

Mi sono chiesto e ho provato a specchiarmi nelle ciliegie, prima di mangiarle fino al mal di pancia.
Mi sono chiesto, sono andato a cercare, dove è nata questa giornata, e non sono riuscita a farla stare, in un pensiero lungo che sia unico. Troppe cose, troppa gente. L'ho dovuta fare a pezzi, a mattoncini, a grumi di memoria e scatole di varie dimensioni, vuote o piene, da impilare.
Una grande sono gli afgani del parco, gli occhi neri neri.
Gli ho portato marmellate, di mele, agrumi, persino ribes; pane scongelato, croccante, buono. Fazzoletti di carta, cucchiai e bicchieri di plastica, uno scatolone che mi hanno detto avrebbero diviso. Non avevano tempo per stare seduti all'ombra, c'era la ronda, i vigili con la faccia di merda presa a prestito dadi qualche finta madre, anima sporca, anima nera, parole che tradiscono cattiveria, ignoranza, egoismo. E con queste facce di merda in prestito giravano, e giravano, a scacciare il culi afgani dall'ombra, per mandarli via e poi ancora via. Un formicaio di formiche in fuga che altro non hanno se non quel che indossano. Era la prima scatola, la più grande di ieri. Subito dopo i chilometri di sudore e giri attorno al cimitero, a evocare nessuno. Subito prima i compiti le frasi lette, le piccole nozioni rubate. Il conto in banca da dare ai miei che si stupiscono di come sarebbe dovuto calare di meno e dai che anche questo mese ce la facciamo. E chissà, forse , forse il prossimo del tutto, penso io. Un'altra piccola scatola. E poi a casa e non sono nemmeno le dieci. E mio padre e mio madre che ne costruiscono a decine, di scatole, in pochi minuti. Mio padre che si diverte a guardare le oche piccole, la anatre litigare con le altre, quelle più grandi a tuffarsi, contare le uova, rubare ciliegie e restare senza radio e ostinarsi a non imparare a usare il condizionatore. Mia madre che si indigna, che vorrebbe regalare non sa nemmeno cosa, che raccoglie zucchine troppo piccole e ruba i lamponi ancora crudi, che vuole andare a trovare i vecchi, vecchi che non conosce, e che non ho tempo di ma non ho cuore di e penso a una giornata di vacanza che se ne va e va bene così, ce la porto. Una scatola via l'altra, una sopra l'altra, incastrate. Kappa che mangia l'insalata, i coniglia piccoli che crescono mentre li stai guardando. E poi il lavoro, le ciliegie portate, le tre ore incastrate per fare tutto, per stampare ricevute, aggiornare blog, scrivere mail, parlare e parlare e parlare, inviare a tutti una mail perfetta dimenticando l'oggetto. I compiti preparati, i libri per bambini presi, da leggere, da guardare, e poi correre, al caldo, sempre in macchina senza maglia e un mondo che continua a guardarti male. Ripetizioni, Cose altre, lontane, che sfioro. Scatole che non avrò. Passo dai libri, una scatola dimenticata, ché non ho messo i cinquanta centesimi nel coso delle offerti. Mi hanno regalato le favole, un mattoncino piccolo che è un libro di Saramago, e i racconti di Lovecraft, che chissà, magari rileggerò. La signora da salutare, adesso è vedova, ci sono le vacanza. Domani chissà, magari verrai qui, a dare una mano. Chissà, fra i libri, certo, ma sociale, no, lo sono troppo o troppo poco, non ho mezze misure. E poi lezione, quelle facce chiare, quelle scure, questi uomini schiavi di una idea perduta, di essere oggi meglio di ieri. E poi tutti questi nomi, che mi corrono davanti, dentro, a fianco, in testa. A frotte come le locuste. E la sera, mangiare, veloce, ciliegie una via l'altra, e poi scrivere, un pezzo, uno soltanto, di un procione con i testicoli giganti, e via, due km e mezzo a piedi nel buio, ascoltando i blur, altre bellissima scatola, con la birra gelata, e i lamponi salvati, e poi di nuovo  a casa, tutte le poesia pensate, e le cose dimenticate, scatole piene, perdute. 
Mi addormento come sempre con la luce accesa, il telefono sotto la schiena, una malinconia che galoppa feroce, dalle unghie al fiato.


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